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ATTESA DEL MESSIA...

 
DAL DESERTO AL GIARDINO

di Alessandro Conti Puorger
 
 

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I 40 ANNI NEL "DESERTO"
Siamo al momento dell'incontro di Mosè con il Signore che gli parla dal roveto ardente e il capitolo 3 del libro dell'Esodo così inizia: "Mentre Mosè stava pascolando il gregge di Ietro, suo suocero, sacerdote di Madian, condusse il bestiame oltre il deserto e arrivò al monte di Dio, l'Oreb."

Quel deserto nel testo ebraico è "midebbar" e, come vedremo, è un deserto dal duplice significato, fisico e spirituale.
Quelle quattro lettere individuano certamente anche il deserto fisico, non quello sabbioso tipo Sahara, ma un luogo spazioso, praticamente inabitato e incolto, luogo di nomadi e di transito di carovane solo in percorsi predeterminati, sede di una pastorizia povera, con morfologia la più diversa, in genere sassoso o roccioso, con poca vegetazione principalmente di rovi e cespugli, con rare vallette verdi, percorso da acque stagionali e con qualche falda sotterranea o con sorgenti ai piedi di costoni, luogo di rifugio per agitatori e malviventi, un asilo per esiliati, schiavi, fuggiaschi, fuori dal controllo della società civile.

Se si divide In + (), tenendo presente che "middah" è "estensione, ampiezza" e "bar" è usato anche per "campo aperto"(Giobbe 39,4) ne consegue che è un "ampio () campo aperto ".
Da una particolare lettura dei significati grafici delle singole lettere s'ottiene per questo deserto una lettura ibrida: "i viventi Aiuta a scegliere ()" e "la vita Impedisce Dentro ai corpi ".
La lettera "dalet" è, infatti, una mano che aiuta, ma anche una porta che può essere sbarrata e impedisce.

Nel deserto se non si sceglie la giusta strada, infatti, si muore e chi riesce a sopravvivere per 40 anni da prova, con i fatti, che ha scelto la giusta via, avendo trovato sufficienti rifornimenti d'acqua. Eppure quel deserto per gli Israeliti, secondo i racconti della Bibbia, fu di aiuto per diventare un popolo.
La storia ebraica, infatti, inizia con una massa di gente raccogliticcia per lo più di ex schiavi, che in quel deserto ricevette la Torah e si costituì come popolo, imparando, nei quarant'anni di viaggio fisico e spirituale a raggiungere l'unione tra di loro e con Dio.

Dal punto di vista storico è quella in Esodo 3,1 proprio la prima volta che nella Torah è stata usata la parola "midebbar" , in quanto, pur se si trova per 7 volte nel libro della Genesi (14,6; 16,7; 21,14.20.21; 36,24; 37,22), il testo del libro della Genesi certamente è stato scritto dopo quello dell'Esodo.
Mosè, esule dall'Egitto per aver ucciso un uomo, visse 40 anni come pastore nel territorio desertico di Madian prima che Dio gli parlasse da quel roveto.
Il numero 40 è convenzionale, atto a ricordare le 40 settimane, pari a 280 giorni, ossia i 10 mesi lunari della gestazione di un bambino e sta ad indicare il tempo necessario per la completa rinascita alla scuola del "deserto" e suggeriscono l'idea che Mosè è ora un uomo nuovo, ormai pronto ad ascoltare Dio che gli parla come di fatto avviene.
Del resto, poi, la stessa massa di fuoriusciti dall'Egitto stette 40 anni alla medesima scuola del "deserto" finché nato da questi un popolo nuovo, sotto la guida di Dio e di Giosuè, poté entrare nella terra promessa, inoltre 40 giorni e 40 notti sono il tempo per ricevere da Dio la Torah e quelli prima della tentazione di Gesù nel deserto di Giuda.

Se guardiamo nel testo ebraico della Torah, la parola "midebbar" è diversamente distribuita nelle cinque parti del rotolo, come indico qui appresso:

  • 7 volte nel libro detto della Genesi,
  • 25 volte nel libro dell'Esodo,
  • 4 volte nel Levitico,
  • 44 volte nel libro dei Numeri,
  • 19 volte nel Deuteronomio.
Risulta così che per tale graduatoria il libro detto dei Numeri riporta il primato; infatti, il nome di quel libro in ebraico è "bamiddebar" "dentro al deserto", parola che si trova anche nel primo versetto (Numeri 1,1) con cui inizia quel libro:

"Il Signore parlò a Mosè,
nel deserto del Sinai,
nella tenda del convegno..."

Il radicale ebraico del verbo parlare è da cui "dabar" significa "parola" che è "un aiuto Dentro per la mente/testa " o "s'insinua () nella testa " e quelle tre lettere si trovano nella prima parola del versetto ed anche all'interno della parola deserto.

A questo punto con i criteri di decriptazione che in genere uso posso leggere che il luogo di cui si parla è assieme un posto concreto, ma anche una condizione spirituale, , infatti, è un luogo ove:

"dentro si vive della parola ".

Quel primo versetto poi spiega della parola di chi... della parola di Dio.
Trovo scritto nel Cantico dei Cantici che l'amato dice dell'amata: "Come nastro di porpora le tue labbra, la tua bocca è piena di fascino; come spicchio di melagrana è la tua tempia dietro il tuo velo." (Cantico dei Cantici 4,3)

Là "midebbar" è tradotto "bocca", ma in effetti sarebbe il tuo "parlare".
Il viaggio nel deserto assume allora anche il significato di dare silenzio alla mondanità per iniziare un viaggio nell'interiorità, propedeutico per una rinascita spirituale, diviene luogo di teofania divina, di tensione e di drammaticità, di abbandono e di riscatto, dove si consumano atti di fede, tradimenti e ribellioni.
Suddividendo ancora la parola In + ed esaminandola con occhio spirituale, considerato che "mad" è "veste" e "bor" è anche "purità", quel "midebbar" fornisce il pensiero che il deserto, ove nel silenzio, parla Dio, regala "la veste di purità " ed in tal senso fu evidentemente interpretata dagli Esseni e dai monaci del deserto.
Il Levitico usa la parola "middebar" solo 4 volte e precisamente in:
  • Levitico 7,38 - "...legge che il Signore ha dato a Mosè sul monte Sinai, quando ordinò agli Israeliti di presentare le offerte al Signore nel deserto del Sinai".
  • Levitico 16,10.21.22 - ove parla del capro espiatorio, segno esterno, per invocare il perdono dei peccati al tempo dello Iom Kippur inviato ad "A'zazel".
Molti ritengono che "A'zazel" sia il nome di un demone, ma c'è anche un'altra interpretazione, che si ottiene spezzando quella parola in + in quanto si può leggere "il capro 'ez' che svanisce, che va via ''azal' ".
Quanto è da rimuovere con quei riti particolari pare proprio personalizzarsi in quel capro che è inviato sì in un deserto fisico, ma visto che "middebar" è anche un particolare deserto nel campo allegorico - spirituale, quello del colloquio intimo col Signore, in definitiva è inviato al Signore come tacita richiesta.
Tenuto presente che "ez" significa anche "forza", nelle lettere di "A'zazel" si può leggere in modo criptico la richiesta avanzata a Dio: "con forza l'Unico Colpisca il serpente ".

Nel patto di alleanza col Signore, testimoniato dall'Arca e dalle Tavole, l'attore umano che allora, ai tempi dopo Mosè, poteva interagire con Dio, per i bisogni della comunità, era il sommo sacerdote, il delegato a rappresentare davanti a Dio la comunità degli Israeliti, l'unico che aveva il potere di chiedere di legare e sciogliere al Signore i peccati del popolo, una sola volta l'anno, a "Yom Kippur", entrando al Suo cospetto nel Santo dei Santi, ma il potere di concederlo ovviamente era sempre e solo di Dio.
Il sacerdote, col rito, di fatto chiedeva che come in terra faceva lui mandando via il capro, così facesse in cielo il Signore, sì da far svanire il nemico dell'uomo, il serpente antico.
Il Signore Gesù per la questione del perdono o meno dei peccati delegò una volta per tutte Pietro quale Sommo Pontefice e quindi gli apostoli a rappresentare la nuova comunità dei suoi seguaci con queste parole: "Beato te, Simone figlio di Giona, perché né la carne né il sangue te l'hanno rivelato, ma il Padre mio che sta nei cieli. E io ti dico: Tu sei Pietro e su questa pietra edificherò la mia chiesa e le porte degli inferi non prevarranno contro di essa. A te darò le chiavi del regno dei cieli, e tutto ciò che legherai sulla terra sarà legato nei cieli, e tutto ciò che scioglierai sulla terra sarà sciolto nei cieli". (Matteo 16,17-19)

E, peraltro, da ricordare che Gesù chiamò Pietro col nome di Cefa (Giovanni 1,42), nome molto simile a quello di Caifa, sommo sacerdote al tempo di Gesù.

Prima di concludere questo paragrafo ritengo utile riportare di seguito un sintetico brano di Daniela Abravanel, scrittrice, divulgatrice d'insegnamenti della Cabala, tratto da "Il deserto: la vera scuola di Torah e di fede": "Il deserto è la terra di nessuno, il luogo in cui la presenza rassicurante degli oggetti fisici viene a mancare: nel deserto non si vede un albero, una casa, non si scorge nulla di ben definito. Funzione del deserto quindi è ridare all'immaginazione il suo massimo potenziale, ispirare il sentimento delle infinite possibilità di evoluzione, liberare dalla ripetitività del già definito, degli schemi fissi. È quindi il deserto che ci avvicina gradualmente a Dio, che nella Torah si autodefinisce 'Dio della libertà'. Il primo dei dieci comandamenti ci avverte subito che l'ebraismo non è una religione per schiavi: 'Io sono il Signore Tuo Dio che ti ha liberato dal paese d'Egitto' (Egitto in ebraico è 'Mitzraim', luogo stretto). E il deserto è il mediatore privilegiato di questo messaggio di libertà assoluta, della costante possibilità per l'uomo di scegliere tra la vita e la morte. Di scegliere tra il passaggio in Erez Israel o l'arresa al deserto che, nel momento in cui l'uomo rinuncia alla lotta contro la morte e il male (concetti che nella Torah coincidono, essendo Dio definito come 'Dio della Vita') lo inghiotte, immobilizzandolo sotto il sale, la sabbia, la roccia. E nella dialettica tra deserto e vegetazione (perfettamente espressa a Ein Gedi, nel deserto di Giuda in Israele, dove ogni giorno i primi pionieri strappavano al deserto un metro dopo l'altro di terreno arido e sabbioso da coltivare) che sono contenuti i due poli dell'esistenza umana, la scelta tra la 'devekut', l'attaccarsi a Dio e alla Vita, assumendo il controllo della propria esistenza, o il permettere alle forze del male di trionfare, rendendo sterile (come il deserto) ogni nostro potenziale di creazione e di rinascita."

Ho scelto questo brano perché nella sua parte finale, che ho riportato in grassetto, fa presente la tensione d'ogni giusto figlio di Abramo di provare a rientrare nel Gan Eden delle origini combattendo la guerra in questo mondo contro il male.
Ovviamente questa guerra sarà vittoriosa se alla sequela del Messia!

Predicava Isaia, ripeteva il Battista che annunciava il Cristo, là, proprio ove ho detto, nelle steppe di Moab, al guado del Giordano davanti a Gerico: "Una voce grida: Nel deserto preparate la via al Signore, spianate nella steppa la strada per il nostro Dio." (Isaia 40,3)

Dio ha sempre provveduto ad ogni bisogno nel deserto, dove ha condotto tutta la massa di persone uscite dall'Egitto, ed era una quantità notevole per la realtà fisica del deserto, infatti: "Gli Israeliti partirono da Ramses alla volta di Succot, in numero di seicentomila uomini capaci di camminare, senza contare i bambini. Inoltre una grande massa di gente promiscua partì con loro e insieme greggi e armenti in gran numero." (Esodo 12,37s)

Tutti questi hanno bevuto e si sono nutriti, grazie al Signore che li ha "...condotti per quarant'anni nel deserto; i vostri mantelli non si sono logorati addosso a voi e i vostri sandali non si sono logorati ai vostri piedi." (Deuteronomio 29,4) e tutto ciò evoca il miracoloso e porta a passare anche a una interpretazione allegorica.
Mosè in quello stesso brano, peraltro, chiama al ricordo e fa balenare nel discorso sinteticamente "le prove grandiose che i tuoi occhi hanno visto, i segni e i grandi prodigi." (Deuteronomio 29,2)

Quel deserto, come luogo di colloquio con Dio, è il punto centrale della religione israelitica, così come Sion e Gerusalemme sono il punto di arrivo finale e la realizzazione piena.
Del resto anche i cristiani per arrivare alla Gerusalemme celeste devono fare deserto della mondanità attorno a sé come ci ricorda ogni anno il tempo di quaresima.
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