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di Alessandro Conti Puorger
 
 

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IL PROSSIMO
Principio fondamentale della Torah, com'è noto, è il comandamento del Levitico 19,18: "Non ti vendicherai e non serberai rancore contro i figli del tuo popolo, ma amerai il tuo prossimo come te stesso. Io sono il Signore".
Per com'è scritto nel testo ebraico della Sacra Scrittura, questo però pare riguardare "i figli del tuo popolo", quindi gli Israeliti e, come del resto il precedente versetto 19,13, pare proprio essere relativo ai rapporti con "re'ak", ossia col "il tuo compagno", quindi con uno della stessa nazione.
Ciò ha portato incomprensioni e comportamenti contrari al comandamento più universale che invece può attendersi da un insegnamento che s'ispira a un Dio di tutte le genti e misericordioso.
Come si può costatare scorrendo i testi dei Talmud, risulta, così, che tra le migliaia di citazioni delle centinaia di Dottori di Torah che vi si trovano esistono anche interpretazioni che escludono da quel comandamento dell'amore i fratelli non ebrei e tale fatto ha fomentato o è la testimonianza della presa d'atto di una realtà storica d'inimicizie gravi con gli altri popoli e le altre comunità religiose, vissute da molti in buona fede, facendo comunque sentire di stare dalla parte del giusto secondo il dettato della Torah scritta e di quella orale. Si trova, invero, che Ben Azzai in Sifra sul Genesi, come principio ancora maggiore di "amerai il prossimo tuo come te stesso" propone alla responsabile attenzione: "Questo è il libro della discendenza di Adamo. Nel giorno in cui Dio creò l'uomo, lo fece a somiglianza di Dio..." (Genesi 5,1s), in quanto, tali versetti rammentano che tutti gli uomini sono tra loro "fratelli", perché tutti figli del primo uomo che Dio creò.
In effetti, ci fu chi incorse nell'errore di pensare che vi fosse stato un rapporto fisico da parte del "serpente" con Eva e che di fatto sarebbero nati figli non di Adamo.
Solo gli Israeliti, grazie al patto del Sinai, rientrarono sotto la "figliolanza" con Dio e gli altri, per contro, figli di serpente, sarebbero rimasti semplici "creature" come gli animali, da cui la liceità di comportamenti diversificati tra fratelli e con gli altri.

Esistono comunque posizioni che portano avanti la soluzione di eguaglianza, infatti, si trova: "I nostri Maestri hanno insegnato: bisogno sopportare i poveri dei pagani come i poveri d'Israele, visitare i poveri dei pagani con i malati d'Israele, dare onorevole sepoltura ai morti dei pagani, come ai morti d'Israele, a causa delle vie di pace." (Ghit. V 8)

Al riguardo, questa duplice posizione nei riguardi del prossimo, un connazionale o un uomo qualsiasi, era evidentemente in discussione anche ai tempi di Gesù in quanto se ne trova evidente riflesso nel Vangelo di Luca nell'episodio detto del "buon samaritano".
In tale occasione, proprio un dottore di Torah fa una domanda a Gesù per metterlo alla prova: "Maestro, che devo fare per ereditare la vita eterna? Gesù gli disse: Che cosa sta scritto nella Legge? Che cosa vi leggi? Costui rispose: Amerai il Signore Dio tuo con tutto il tuo cuore, con tutta la tua anima, con tutta la tua forza e con tutta la tua mente e il prossimo tuo come te stesso. E Gesù: Hai risposto bene; fa questo e vivrai. Ma quegli, volendo giustificarsi, disse a Gesù: E chi è il mio prossimo?" (Luca 10,26-29)
Per la risposta Gesù racconta un fatto che chiama in gioco la reciprocità.
D'altronde Dio nella Torah ha rivelato che è Santo e chiede a ciascuno di cercare la somiglianza con Lui ed essere sua immagine per gli altri.
Ed ecco il fatto: "Un uomo scendeva da Gerusalemme a Gerico e incappò nei briganti che lo spogliarono, lo percossero e poi se ne andarono, lasciandolo mezzo morto. Per caso, un sacerdote scendeva per quella medesima strada e quando lo vide passò oltre dall'altra parte. Anche un levita, giunto in quel luogo, lo vide e passò oltre. Invece un Samaritano, che era in viaggio, passandogli accanto lo vide e n'ebbe compassione. Gli si fece vicino, gli fasciò le ferite, versandovi olio e vino; poi, caricatolo sopra il suo giumento, lo portò a una locanda e si prese cura di lui. Il giorno seguente, estrasse due denari e li diede all'albergatore, dicendo: Abbi cura di lui e ciò che spenderai in più, te lo rifonderò al mio ritorno. Chi di questi tre ti sembra sia stato il prossimo di colui che è incappato nei briganti? Quegli rispose: Chi ha avuto compassione di lui. Gesù gli disse: Va e anche tu fa lo stesso." (Luca 10,25-37)
In quel caso fu il prossimo di chi aveva bisogno non un Levita, né un sacerdote, ma un samaritano, quindi un non Israelita; come quel samaritano però si comporta chi ha misericordia e mette al primo posto il Mondo Avvenire cioè la vita eterna che diceva di cercare quel Dottore di Torah.
Peraltro è veramente potente "chi cambia un nemico in amico." (ARN XXIII)
Il Santo però ama gli umili e si rivelò e fece condottiero d'Israele Mosè "Ora Mosè era un uomo assai umile ("a'nu me'od" ), più di qualunque altro sulla faccia della terra." (Numeri 12,3)

Dicono i Salmi:

  • 101,5 - "...chi ha occhi altezzosi e cuore superbo non lo potrò sopportare."
  • 138,6 - "...eccelso è il Signore e guarda verso l'umile ma al superbo volge lo sguardo da lontano."
La "Shekinah" risplende "su chi è coraggioso, ricco, saggio e umile." (Ned. 38 a)
I Dottori che intendevano dire?
Ricco, è chi tende alla perfezione morale, come dice Aboth IV 1 "Chi è ricco?
Chi si contenta della propria parte
".
E chi è coraggioso? Chi domina le proprie passioni.

Dice Gesù nel Vangelo di Luca nella parabola dei talenti "Vi dico: A chiunque ha sarà dato; ma a chi non ha sarà tolto anche quello che ha." (Luca 19,26)
Il Messia si rivolgerà agli umili perché "L'umiltà è la più grande di tutte le virtù, com'è detto: Lo spirito del Signore Dio è su di me perché il Signore mi ha consacrato con l'unzione; mi ha mandato a portare il lieto annunzio ai miseri (agli umili 'a'naioim' ). Non è detto ai santi, ma agli umili; da qui apprendiamo che l'umiltà è la più alta virtù." (A. Z. 20 b) e inizierà col rivolgersi ai figli di Abramo, perché "Un occhio buono (non invidioso) una mente umile e uno spirito modesto sono gli attributi dei discepoli di Abraham padre nostro." (Aboth V 22)

Ora accade che se ci si guarda intorno con l'occhio buono si vede che il "prossimo" che s'incontra soffre spesso di gravi bisogni che non può sopperire per mancanza di tempo e di denaro.
La storia e i fatti della vita hanno messo quel "nostro fratello" in condizioni d'indigenza e, allora, come non cercare, almeno per quanto consente il nostro senso di giustizia, assolvere al comandamento che ricorda d'avere "amore per il prossimo", la cui piena misura invero è quella che avremmo per noi stessi?
Ecco che la misericordia verso il bisognoso più che un atto di grazia da parte di chi si adopera per lui, da un punto di vista più generale è da considerare piuttosto un atto dovuto di giustizia, un cercare di riequilibrare lo stato di giustizia delle origini.

È scritto, infatti, in Salmo 112,9: "Egli dona largamente ai poveri, la sua giustizia rimane per sempre."
Il giusto è lo "tsadiq" e la giustizia è la "tsedaqah" , sinonimo di atti di misericordia e in modo riduttivo di "elemosina".
Dio, infatti, nell'esercitare la giustizia infinita esplicita il proprio essere il Santo e il Misericordioso. Le lettere stesse di "tsadiq" ci dicono che questi "scende in aiuto di chi è abbattuto/piegato ".

Nel discorso della montagna Gesù, infatti, collega il praticare la giustizia cl fare l'elemosina: "State attenti a non praticare la vostra giustizia davanti agli uomini per essere ammirati da loro, altrimenti non c'è ricompensa per voi presso il Padre vostro che è nei cieli. Dunque, quando fai l'elemosina, non suonare la tromba davanti a te..." (Matteo 6,1s)

La forma migliore dell'elemosina dice il Talmud è darla in segreto, cioè quando "chi da un dono senza sapere chi lo riceve non sa chi ha donato" (B. B. 10 b)
Al proposito il discorso della montagna, subito dopo il passo sopra citato così risuona: "Quando invece tu fai l'elemosina, non sappia la tua sinistra ciò che fa la tua destra, perché la tua elemosina resti segreta; e il Padre tuo, che vede nel segreto, ti ricompenserà." (Matteo 6,3s)
La carità è un mezzo di espiazione del peccato.
Akiba a un romano che gli domandava perché Dio non provvedesse direttamente ai poveri rispose: "Perché sia possibile a noi essere liberati per mezzo loro dalla pena Ghehinnom". (B. B. 10 a)
Facevano comprendere in modo pratico la questione: i beni terreni appesantiscano l'anima e la fanno cadere nel Ghehinnom, infatti "...di due agnelli che traversano un corso d'acqua, uno tosato e l'altro no. L'agnello tosato passa sano e salvo, mentre l'intonso no". (Ghit. 7 a)

La Geenna o valle dell'Hinnom, ricordata tante volte nella predicazione da Gesù, era una valletta sul lato sud del monte Sion ove Acaz e Manasse, re di Giuda, praticavano il culto al dio Molok; poi fu adibita all'eliminazione col fuoco dei rifiuti di Gerusalemme e il Talmud, come i Vangeli, lo pensano quale il luogo della distruzione dei malvagi nel giorno della risurrezione dei morti.
"La carità è più grande di tutti i sacrifici." (Suk 49 b)
"Quando un mendicante sta alla tua porta, il Santo che benedetto sia, sta alla sua destra." (Lev. R XXXIV 9)

Dice il Gesù Cristo nel ricordare le opere di misericordia: "In verità vi dico: ogni volta che avete fatto queste cose a uno solo di questi miei fratelli più piccoli, l'avete fatto a me." (Matteo 25,40)

L'ira, la gelosia, l'invidia, l'incomprensione, la superficialità, la competizione, figlie tutte dell'egoismo, portano a provocare o ricevere offese al e dal prossimo.
L'armonia però ne è turbata.
Ecco che il Talmud propone: "Se alcuno ha sospettato a torto un altro, deve riconciliarsi con lui; più ancora deve benedirlo". (Ber. 31 b)

In parallelo a quanto propone il libro di Giobbe 38,27-30 circa il comportamento Dio con l'uomo peccatore: "Avevo peccato e violato la giustizia, ma egli non mi ha punito per quel che meritavo; mi ha scampato dalla fossa e la mia vita rivede la luce. Ecco, tutto questo fa Dio, due volte, tre volte con l'uomo, per sottrarre l'anima sua dalla fossa", il tentativo di riconciliazione, propone il Talmud, deve essere portato avanti non più di tre volte (Joma 87 a).

Al riguardo nei Vangelo di Matteo alla domanda di Pietro "Signore, quante volte dovrò perdonare al mio fratello, se pecca contro di me? Fino a sette volte? Gesù gli rispose: Non ti dico fino a sette, ma fino a settanta volte sette." (Matteo 18,21s) infatti, fino al giorno della morte Dio da all'uomo la possibilità di redimersi col pentimento.
Per contro l'offeso è chiamato a non serbare rancore:
  • " Dimentica l'insulto che ti è stato arrecato." (ARN XLI)
  • "Chi dimentica la vendetta, i suoi peccati sono perdonati: quando perdono l'ottiene." (Joma 23 a)
In parallelo risuonano le parole della preghiera cristiana del "Padre Nostro": "rimetti a noi i nostri debiti come noi li rimettiamo ai nostri debitori..." (Matteo 6,12)

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